“Questo rapporto è molto diverso da quello dell’anno scorso. Quando ero stato colpito dai toni cupi. Quest’anno invece la prima cosa che si vede è che siamo in un momento di svolta, non solo perché speriamo che sia verso la fine della pandemia, ma perché ci sono segnali di cambiamenti piu’ fitti del solito. E quindi con due sentimenti molto forti: momenti di grande incertezza, anche con segnali di disorientamento, ma anche con forti segnali di fiducia”.
Lo ha detto il presidente del Cnel Tiziano Treu intervenendo alla presentazione del 55esimo Rapporto del Censis. “Siccome e’ un momento di transizione trasformativa è fondamentale, le cose non vanno da sole, ci vuole progettualità. E li’ non siamo fortissimi, bisogna esserlo di più. Inoltre, per affrontare questa società cosi’ interdipendente servono progetti unitari: adesso siamo nella fase di implementazione del PNRR che e’ estremamente complicata, con interdipendenze e pluralità soggetti coinvolti”, serve quindi “unitarietà” e “in questo momento piu’ che mai la coesione e’ un ingrediente essenziale”.
Treu ha insistito sul fatto che esiste anche una “transizione del lavoro”: “La transizione del lavoro e’ non solo quantitativa ma anche qualitativa, se non si rompe questo, alla fine c’e’ un loop. Questa e’ una transizione che va resa positiva”. Il Pnrr, infine, “e’ molto di piu’ del Piano Marshall, non solo ci sono piu’ soldi, ma quello era un rilancio di una crescita che si sapeva qual era, ora e’ un tipo di ricostruzione qualitativamente diverso, che richiede un percorso lungo – noi siamo stati troppo vittime di uno sguardo corto”.
Le attese degli italiani sul futuro del lavoro: rischio precarietà e fiducia nell’attuazione del Pnrr. L’emergenza sanitaria ha avviato un nuovo ciclo dell’occupazione. Il 36,4% degli italiani ritiene che la crisi si sia tradotta in una maggiore precarietà (tra le donne la percentuale sale al 42,3%). Il secondo effetto è l’esperienza del lavoro da casa e la possibilità di conciliare le esigenze personali con quelle professionali: lo pensa il 30,2% degli italiani (e il 32,4% delle donne). Cresce l’aspettativa nel futuro, soprattutto per il 27,8% della popolazione che considera le risorse europee e il Pnrr elementi in grado di garantire occupazione e sicurezza economica per i lavoratori e le famiglie.
Basse retribuzioni, disoccupazione, disaffezione al lavoro. Bassi tassi di occupazione, alti tassi di disoccupazione (soprattutto dei giovani) e ampie sacche di inattività (soprattutto femminile): sono le caratteristiche di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato. Per il 30,2% degli italiani al primo posto tra i fattori che frenano l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro (Stato compreso) offrono in cambio della prestazione lavorativa anche nei confronti di chi dispone di competenze e capacità adeguate. Al secondo posto, per il 29,9% c’è la persistenza di condizioni inadeguate per avviare un’attività in proprio, a partire dal peso dei troppi adempimenti burocratici, fino al carico fiscale che grava sull’attività d’impresa.
I divari retributivi nel lavoro dipendente. Prendendo in esame le retribuzioni degli oltre 15 milioni di lavoratori pubblici presenti negli archivi Inps, il dato medio complessivo riferito alla giornata retribuita si attesta a 93 euro. Una donna percepisce una retribuzione inferiore di 28 euro se confrontata con quella di un uomo. La retribuzione per una donna è inferiore del 18% rispetto alla media, mentre quella di un uomo è del 12% superiore. In base all’età dei lavoratori emerge una differenza di 45 euro tra un under 30 anni e un over 54. La penalizzazione dei giovani è di 30 punti percentuali rispetto alla media e di 48 punti rispetto ai lavoratori con più di 54 anni. Ampia è anche la distanza tra la paga giornaliera di chi ha un contratto a tempo indeterminato rispetto al tempo determinato e fra full time e part time. La giornata lavorativa del tempo indeterminato vale 97 euro contro i 65 del lavoro a termine, la retribuzione giornaliera del tempo pieno vale più di due volte quella del tempo parziale.
L’utilità sociale delle libere professioni. Dal 2008 al 2020 il lavoro indipendente in Italia si è ridotto di 719.000 unità, passando da quasi 6 milioni di occupati a poco più di 5 milioni (-12,2%). Nello stesso periodo il lavoro dipendente, nonostante le ripetute crisi, è aumentato di oltre mezzo milione di occupati: +532.000 (+3,1%). Nel periodo considerato le libere professioni sono aumentate (+241.000 occupati: +20,9%). Ma tra il 2019 e il 2020 il saldo finale per i liberi professionisti porta un segno negativo, con una riduzione di 38.000 occupati. Ma resta intatto il loro appeal. Il 40,0% degli italiani definisce la libera professione un’attività prestigiosa, che fa valere le competenze acquisite e l’impegno dedicato allo studio. Per il 34,1% si tratta di un lavoro utile, importante per la collettività.
I tempi della ripresa e i tempi della formazione: un nodo da sciogliere. Il basso impegno nella formazione continua e il ritardo nell’adozione di efficaci politiche attive del lavoro rischiano di rappresentare una strozzatura per il perseguimento degli obiettivi di crescita previsti dal Pnrr. Tra il 2012 e il 2020 la partecipazione alla formazione continua delle persone di 25-64 anni è passata dal 6,6% al 7,2%, con un incremento di soli 8 decimi di punto. Nello stesso periodo la media per l’Unione europea è aumentata di un punto, dall’8,2% al 9,2%. Le imprese italiane di minore dimensione accedono poco ai fondi per la formazione finanziata: lo fa solo il 6,2% delle Pmi contro il 64,1% delle aziende che contano più di 1.000 dipendenti. L’altra gamba su cui poggiare la realizzazione degli obiettivi del Pnrr è la possibilità di disporre di un sistema coerente di politiche attive del lavoro in grado di gestire il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, tenuto conto del mismatch tra competenze necessarie alle imprese e competenze disponibili. Oggi però i centri pubblici per l’impiego in Italia riescono a entrare in contatto soltanto con il 18,7% delle persone in cerca di occupazione. A livello europeo la percentuale sale al 42,5%, con punte del 63,6% in Germania e del 60,3% in Svezia.